Il prelievo sullo scavo. Le sepolture di Padova – Via Tiepolo e Via San Massimo

Dalla necropoli di Padova, un caso di recupero complesso spiegato in tutte le fasi dello scavo, comprese le operazioni di primo intervento conservativo e il prelievo dei reperti.

Data:
15 Ottobre 2020

Il prelievo sullo scavo. Le sepolture di Padova – Via Tiepolo e Via San Massimo



Dati generali dell’intervento

Provenienza: necropoli di Padova – Via Tiepolo e Via San Massimo;
Datazione: IX sec. a.C – età romana;
Collocazione: Deposito della Soprintendenza

Rinvenimento, stato di conservazione e metodologie di intervento

Tra le diverse fasi dello scavo archelogico il prelievo dei materiali è senza dubbio una delle operazioni più delicate, da effettuare con metodologie che possono variare a seconda del contesto e dello stato conservativo dei materiali. In presenza di situazioni particolarmente complesse è necessario che all’archeologo si affianchi la competenza del restauratore, per mettere in campo tutte le misure di conservazione preventiva, fondamentali per la salvaguardia dei reperti, anche in funzione del successivo intervento di restauro. Un caso emblematico di recupero complesso è rappresentato dallo scavo delle sepolture provenienti dalla necropoli di Padova, Via Tiepolo e Via San Massimo, nel quale è coinvolto da molti anni anche il Laboratorio di restauro.
Si tratta di una necropoli rinvenuta negli anni 1990 e 1991 nella zona orientale della città, che ha restituito circa 300 tombe, prevalentemente ad incinerazione, riferibili a un arco cronologico compreso tra il IX secolo a.C e l’età romana. Nell’impossibilità di scavare completamente l’ampia zona e recuperare tutte le sepolture, una parte di esse è stata prelevata in blocchi mediante tagli del terreno, quindi racchiusa in cassoni lignei. Questi enormi “pani di terra” sono stati trasportati in un magazzino dove nel 1999 è cominciato il primo scavo in laboratorio, al quale hanno avuto seguito altri scavi nel 2007 e nel 2009, condotti sotto la direzione scientifica della dott.ssa Angela Ruta Serafini, funzionario dell’allora Soprintendenza Archeologica del Veneto  (figg. 1-3).



Dopo una lunga sosta, nel 2017 i lavori sono ripresi grazie alla collaborazione tra la Soprintendenza e l’Università Ca’ Foscari di Venezia, nella formula della concessione di scavo, sotto la direzione della prof.ssa Giovanna Gambacurta; gli scavi sono proseguiti con una cadenza annuale e sono tuttora in programma.*
Le modalità di recupero delle tombe e il lungo tempo trascorso dal momento del loro prelevamento hanno reso necessario approntare delle strategie che tenessero conto di questi fattori, cercando di conciliare le esigenze conservative con quelle di scavo. Questo particolare cantiere, oltre che di grande interesse scientifico, ha fornito agli studenti l’opportunità di apprendere, assieme alle tecniche di scavo, anche le basilari pratiche di conservazione preventiva sul campo, aspetto tanto importante quanto ancora troppo spesso trascurato nel percorso formativo dell’archeologo.
Le tombe scavate finora in laboratorio, tutte ad incinerazione, sono riconducibili a due tipologie: in cassetta lignea, della quale rimane riconoscibile solo il limite, oppure in dolio, un grande contenitore fittile; in entrambi i casi all’interno venivano deposti l’urna cineraria, contenente le ossa combuste del defunto, e un corredo, spesso molto ricco (figg. 4-6).



I corredi sono costituiti prevalentemente da oggetti in ceramica (olle, ciotole, tazze, bicchieri),ai quali possono essere associati elementi di ornamento personale o legati al rango e al ruolo del defunto, in bronzo, ferro, osso, ambra.
Nonostante la ceramica sia abbastanza compatta, anche se non mancano casi di impasti fragili e decoesi, lo stato di conservazione dei materiali risulta fortemente compromesso per l’estrema frammentarietà che caratterizza quasi tutti i contesti.
I fattori che hanno determinato questo degrado sono imputabili al cambiamento microclimatico subìto dai reperti dopo la fase del prelievo e alle tensioni dovute all’essiccamento della terra; a questi si aggiungono i traumi causati da diversi spostamenti dei cassoni, prima di essere trasportati nell’attuale collocazione, che ha portato al cedimento di parte di essi e alla necessità di una sostituzione delle assi lignee con un supporto in calcestruzzo (figg. 7-9).



Il sedimento in cui si trovano inglobate le tombe, di matrice limo-argillosa, è completamente essiccato, compatto e durissimo, quasi impermeabile all’acqua; dalla fase della messa in luce si procede a secco, molto gradualmente, con le metodologie proprie dello scavo stratigrafico, fino alla completa esposizione del corredo e alla lettura di tutte delle sequenze. Durante queste fasi, a causa delle sollecitazioni meccaniche, le fratture e le microfessurazioni presenti sui materiali fittili tendono ad accentuarsi, fino al distacco e alla caduta dei frammenti. Per consentire il mantenimento in situ dei reperti per il tempo necessario per la documentazione di scavo, si è ricorsi alla “velinatura”, cioè all’utilizzo di piccole strisce di carta giapponese poste lungo le linee di frattura, applicate sulle superfici con resina acrilica (Paraloid ® B72 al 10% in acetone) stesa a pennello (figg.10-11). Per effettuare il prelievo, in prossimità degli oggetti il terreno viene gradualmente bagnato con acqua tramite spruzzette, in modo da orientarne il getto, cercando di evitare il diretto contatto con la ceramica per non determinare esfoliazioni e ulteriori frammentazioni. Nell’impossibilità di poter eseguire il prelievo in blocco, si deve ricorrere allo smontaggio dei singoli reperti, procedendo a un graduale isolamento e distacco; questa fase delicata, che richiede tempi lunghi anche per la scarsa assorbenza del sedimento all’acqua, viene effettuata tramite spatole d’ acciaio, resistenti e flessibili, facendo attenzione a non incidere le superfici e anon intaccare gli oggetti in diretto contatto (fig. 12).



A causa del crollo naturale delle cassette lignee, ma anche per la ritualità della riapertura e ricongiunzione dei resti cremati all’interno della stessa urna, o per monomissioni in antico, molti vasi risultano frammentati e lacunosi, collassati su se stessi e schiacciati; in alcuni casi recipienti di diverse misure sono deposti uno dentro all’altro o capovolti. (fig. 13-15).



Alla luce dell’esperienza acquisita, la velinatura è risultato un valido sistema anche per evitare la dispersione di scaglie e di piccoli frammenti, agevolando la ricomposizione dei reperti più degradati o lacunosi nella successiva fase di restauro; una volta staccati dal terreno, i frammenti e le porzioni smontate vengono collocate su vassoi o altro supporto rigido, mantenendone rigorosamente la connessione e l’ordine (figg.16-18).

Per quanto riguarda i vasi ossuari, nel caso di impossibilità di prelievo il microscavo è stato eseguito in situ, con gli stessi criteri dello scavo stratigrafico; quelli in buone condizioni di conservazione sono invece stati prelevati e trasferiti nel laboratorio di restauro, poiché questo intervento richiede attrezzature, spazi e tempi non compatibili con quelli del cantiere.
Una particolare attenzione è stata dedicata anche agli imballaggi, un aspetto non marginale che, se non correttamente eseguito, può vanificare anche le migliori pratiche di recupero. Sono stati utilizzati materiali che rispettano i requisiti fondamentali per la conservazione finalizzata all’immagazzinamento, ovvero proprietà di resistenza meccanica e di inerzia chimica rispetto ai reperti.
Nel caso dei metalli, in genere oggetti di piccole dimensioni (coltellini, punteruoli, spilloni, fibule) si è ritenuto opportuno creare dei supporti ad hoc per ciascuno di essi, utilizzando delle lastre di Ethafoam® , un materiale leggero, inerte e facilmente modellabile, nel quale sono stati ricavati degli appositi alloggiamenti (figg. 19-21). Tutti gli involucri protettivi realizzati con pellicola di polietilene, sono stati opportunamente forati per evitare l’insorgere di fenomeni di condensa e di crescite biologiche.

Testo e immagini di Federica Santinon



Nel video che segue, realizzato dalla dott.ssa Fiorenza Bortolami (Università Ca’ Foscari, Venezia), sono illustrate tutte le fasi dello scavo, comprese le operazioni di primo intervento conservativo e il prelievo dei reperti.



* Per la Soprintendenza la concessione di scavo e il supporto logistico sono stati seguiti da Elena Pettenò, funzionario archeologo responsabile della zona di Padova, e da Benedetta Prosdocimi, funzionario archeologo responsabile dei depositi.

Riferimenti bibliografici

Gambacurta G., Ruta Serafini A. 2014, La necropoli orientale tra Via Tiepolo e Via San Massimo a cura di Gamba M., Gambacurta G., Ruta Serafini A.  La prima Padova. Le necropoli di Palazzo Emo Capodilista Tabacchi e di Via Tiepolo – Via San Massimo tra il IX e l’VIII sec. a.C.  Archeologia Veneto 3 – Regione del Veneto, pp. 122-128.

Millo L., Voltolini D. 2013, Le necropoli di pianura: tra rito e società  a cura di  Gamba M., Gambacurta G., Ruta Serafini A., Tiné V., Veronese F. Venetkens. Viaggio nella terra dei Veneti antichi, pp. 341-343; pp. 372-375.

Michelini P., Ruta Serafini A. 2005, Le necropoli, a cura di  De Min M., Gamba M., Gambacurta G., Ruta Serafini A., La città invisibile. Padova preromana. Trent’anni di scavi e ricerche, pp. 131-143.

Pedelì C., Pulga S. 2000, Primo intervento sullo scavo. Principi e metodi conservativi, Faenza – Museo Internazionale della Ceramica.

Ultimo aggiornamento

2 Settembre 2021, 17:05